L’APPRODO MANCATO (Annale Feltrinelli 2016)
Franco Amatori

Che l’Italia, giunta alla fine del secolo scorso al 5° posto nel mondo per ricchezza prodotta annualmente, dovesse arretrare così com’era inevitabile che subisse i rigori della crisi scoppiata negli Stati Uniti nel settembre del 2008, era un fatto scontato. Il prepotente avvento della globalizzazione e l’ascesa dei cosiddetti BRICs, in particolare della Cina, fanno sì che l’Italia non possa mantenere le sue posizioni relative. Allo stesso tempo, l’enorme massa dei titoli tossici non poteva non avere effetti sull’economia già gravata da un debito pubblico fra i più alti del mondo. Tuttavia, questi veri e propri uragani sarebbero stati affrontati in modo ben diverso se l’apparato economico e, in particolare, industriale italiano fosse stato di maggiore consistenza se il Paese avesse potuto avvalersi di una grande industria chimica, elettronica, automobilistica, se avesse avuto una più vasta diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, se fosse stato più autonomo dal punto di vista energetico. Insomma, se potesse essere paragonabile quanto a forza economica alla Germania o alla Francia. A dire il vero, la storia controfattuale non ci entusiasma. Preferiamo restare fedeli al motto di von Ranke: ”Studiare le cose come sono realmente andate”. Non possiamo non chiederci, però, che cosa sarebbe accaduto se lo snodo del post miracolo (fine anni Sessanta, anni Settanta) avesse avuto un esito diverso. L’approdo mancato è espressione che mutuiamo da un bel saggio di Mario Pirani apparso sulla rivista Il Mulino nel giugno del 1991. Pirani vi affrontava il tema di tre occasioni mancate, l’elettronica, il nucleare, la distribuzione petrolifera, quale la concepiva Enrico Mattei. Mario Pirani argomentava che se avessimo colto queste opportunità saremmo pervenuti a un approdo giapponese. Noi diamo all’espressione “approdo mancato” un significato più vasto, meno esclusivo, ovvero, di approdo alla frontiera dell’economia mondiale. Qui di seguito indicheremo sedici capitoli per ciascuno dei quali proporremo autori e contenuti. Si tratta, naturalmente, di un primo abbozzo utile alla discussione.

1. L’APPRODO MANCATO (F.Amatori)

2. IL RUOLO DELLO STATO (F.Amatori). E’ un saggio impostato in prospettiva comparata, ad esempio si parlerà dello stato giapponese che, assorbita perfettamente la fallimentare esperienza d’intervento diretto nell’economia, opera nel secondo dopoguerra per guidelines e moral suasions. In Italia, invece, lo Stato accresce la sua sfera di partecipazione all’economia, spesso con fini extra economici. Inoltre non si cura di costruire quel framework giuridico istituzionale necessario al corretto funzionamento delle imprese. Manca una legge antitrust, non c’è protezione per gli investitori in borsa – il parco buoi -, non viene incentivata la formazione d’investitori istituzionali, né riformata una legge bancaria non più al passo con i tempi, ma, soprattutto, non viene governato il cambiamento sociale inevitabile fuori e dentro la fabbrica date le trasformazioni degli anni del “miracolo”.m

3. PROSPETTIVE E RISULTATI DEL RIFORMISMO: PROGRAMMAZIONE, DECENTRAMENTO, STATO SOCIALE, DIRITTI CIVILI (Marco Magnani). Il Paese ha bisogno di un’opera di governo e razionalizzazione del cambiamento, dopo anni di crescita tumultuosa. Si assume questo compito il riformismo del centro sinistra, prima di Fanfani, poi di Moro. Gli obiettivi sono quelli di ridurre i divari ormai stridenti in un Paese tanto cresciuto e capace di slancio, mediante una politica di programmazione. Si trattava, inoltre, di portare lo Stato più vicino al cittadino e per questo era necessario adempiere al dettato costituzionale che prevedeva l’istituzione di Regioni ordinarie. Era ormai ineludibile costruire un welfare da paese civile, in primis un più adeguato sistema pensionistico e sanitario, come ineludibile era l’affermazione di diritti civili, quali il divorzio o, dentro la fabbrica, la fine delle discriminazioni politiche e sindacali. Questo saggio dovrebbe funzionare sul tipo bonelliano del “mito e realtà”.

CINQUE EPISODI CRUCIALI

4. IL FALLIMENTO DEI PROGETTI TECNOLOGICI DI FRONTIERA (Mario Perugini). Sono l’elettronica, il nucleare, la distribuzione di prodotti petroliferi, in parte, la chimica. In questo caso, sarebbe stato necessario un coerente intervento dello Stato a protezione di settori strategici. Le iniziative vennero, invece, lasciate ai privati. Emblematico è il caso del nucleare, un settore per il quale vennero realizzate tre centrali ma con tecnologie diverse e da aziende diverse, la Edison, la Finelettrica e l’Eni. Oltre a tutto, queste due erano imprese pubbliche avvalorando la tesi dei “capitalismi di stato”. Allo stesso modo non si poteva lasciare l’elettronica proprio nel momento in cui l’IBM sferrava il suo devastante attacco con l’introduzione del “sistema 360” ad una rissosa impresa familiare, l’Olivetti, e ad un gruppo di salvataggio non interessato a questo tipo di industria ed orientato sul breve periodo.

5. LA DEGENERAZIONE DELLO STATO IMPRENDITORE (Luciano Segreto). Dopo la seconda metà degli anni Sessanta, comincia a spezzarsi l’equilibrio fra management e politica che aveva contrassegnato i grandi successi dell’impresa pubblica. Gli obiettivi diventano sempre più extra aziendali. L’Eni deve compiere salvataggi su comando del Parlamento per legge, alla maniera sovietica, vedendosi espropriata di prerogative fondamentali, come la scelta della propria strategia e l’attaccamento al proprio core business. L’IRI deve costruire impianti che garantiscano occupazione, più che rispondere alle esigenze del mercato, come dimostra il caso del 4° centro siderurgico di Taranto. Pasquale Saraceno teorizza il concetto di “economicità” che significa coniugare massimizzazione del profitto e obiettivi sociali. E’ una costruzione affascinante ma che non regge alla prova della realtà anche se il dirigente di un’impresa pubblica non può essere completamente assimilato a quello di un’analoga impresa privata perché certamente deve tener conto di una pluralità di scopi che toccano anche il versante sociale. Resta il rischio di una degenerazione dell’azienda difficilmente accettabile dai suoi, sebbene di minoranza azionisti privati ed è difficilmente circoscrivibile il concetto di onere improprio al quale deve corrispondere da parte del Parlamento un fondo di dotazione. In questo modo, esaurita una generazione di manager, particolarmente motivati e dotati di straordinaria competenza, il sistema si avvia al tracollo.

6. LA NAZIONALIZZAZIONE DELL’ENERGIA ELETTRICA E I SUOI EFFETTI (Marina Comei). La nazionalizzazione dell’energia elettrica del 1962, condizione indispensabile per la nascita del centro sinistra, portò indennizzi più che consistenti alle società. Era questo l’esito di una decisione che vedeva premiate le imprese elettriche invece che i loro azionisti, una tesi cara soprattutto al governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, che intendeva così ripetere l’operazione del 1905 quando le società ferroviarie, indennizzate per la nazionalizzazione, finirono per riversare i propri capitali nella nascente industria elettrica. Carli riteneva che, in questo caso, la maggior parte delle risorse finanziarie prodotte dalla nazionalizzazione affluisse ad un settore allora specialmente dinamico come quello chimico. In realtà, ingenti risorse furono per lo più sperperate in modo dissennato, mancando di una guida come avrebbe potuto essere una in haus bank. Cuccia cercò, in effetti, di governare questo frangente ma, ancora non era Cuccia e Mediobanca non era Mediobanca. Il frutto più avvelenato di questa stagione fu la fusione fra Montecatini e Edison, Montedison (1966), un esempio da manuale di come non si fa un merger. Una grande opportunità per la chimica italiana che, invece, con essa, scomparirà, almeno nella versione “grande impresa”.

7. LA CRISI DELLE GRANDI FAMIGLIE (Andrea Colli). Una ricerca degli anni Settanta – quella di Robert J. Pavan – sulle cento maggiori imprese italiane segnalava il fatto che queste si caratterizzavano per tre tipologie: a)  imprese controllate dallo Stato; b) multinazionali; c) imprese dominate da una famiglia. Queste ultime, a loro volta,  mostravano due difetti: 1. una scarsa crescita per le limitate risorse umane al vertice; 2. La valutazione dei dirigenti non in base alle performance,  ma alla fedeltà ai proprietari. Era inevitabile, quindi, che negli anni Sessanta e Settanta si verificasse una vera e propria moria di grandi imprese rette da una dinastia famigliare che saranno rimpiazzate al vertice dallo Stato imprenditore o acquisite da multinazionali straniere. E’ questo un elemento non positivo. Nel primo caso, infatti, l’impresa pubblica entra in un terreno per il quale possiede scarse competenze, nell’altro, sono noti gli inconvenienti di “quando il padrone è straniero”.

8. IL LUNGO AUTUNNO (Sergio Bologna). E’ il periodo che inizia con le agitazioni alla Fiat del settembre 1969 e si conclude, sempre a Torino, con la “marcia dei 40.000” nell’ottobre del 1980. Non c’è dubbio che questa tragica stagione abbia le sue radici nella politica miope e repressiva del padronato degli anni precedenti. Quello che emerge, però, è l’incapacità delle cosiddette “parti sociali” di trovare un terreno comune così da incanalare la protesta in istituzioni adeguate ad un paese che si collocava, ma che anche voleva collocarsi, in Occidente. Così, mentre risalta la passività degli imprenditori sul terreno delle relazioni industriali, in particolare nei primi anni Settanta, per lo spavento provocato dal “rischio magistratura”, si può affermare che il sindacato ottenne tutto per non gestire nulla. Fu persa una grande occasione per rendere l’Italia un paese normale.

9. L’ITALIA DEI CONSUMI: LA MODERNIZZAZIONE  SUBALTERNA (Paolo Capuzzo). L’Italia degli anni Sessanta –  Settanta è più simile a quella di oggi che a quella di metà anni Cinquanta. Ciò dato l’avvento della “società dei consumi” che cambia antropologicamente gli italiani. L’ipotesi è che, data la debolezza e la frammentarietà sociale, il nostro diventi rapidamente il paese della Coca Cola, molto più che altre nazioni dove il tessuto è più forte ed omogeneo. Si tratta, in ogni caso, di un passaggio decisivo che porta ad una radicale trasformazione dei costumi. Emerge, allora, la tematica dell’eclissi del sacro, un cambiamento forse troppo rapido ed eccessivo che spingerà il popolo italiano ad un rifiuto di limiti e compatibilità con le quali deve necessariamente misurarsi una nazione avanzata.

10. L’ITALIA DISUNITA (Lea D’Antone). Una delle conseguenze più importanti dell’approdo mancato è la fine di quel pur modesto catch up che si era registrato fino agli anni Sessanta fra Centro-Nord e Sud. Spinta sempre più nella competizione internazionale, l’Italia appare affetta da un doppio processo di “convergenza” con l’Europa e “divergenza” da essa. Quest’ultima riguarda il Sud dove si esaurisce l’esperienza che pure va riconsiderata dei poli di sviluppo. E’ forse eccessivo dire che dal loro incompleto funzionamento emergano condizioni che portano al controllo del territorio, la criminalità organizzata?  Certo questa assume un ruolo di protagonista e di punto di riferimento per vasti strati di una sfilacciata società, come sarà evidente nel caso della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo a seguito delle conseguenze nel Napoletano del terremoto del 1980. Ma, forse, questa ipotesi è troppo audace e va attentamente verificata.

11. UN DECENNIO DI CRISI – GLI ANNI SETTANTA IN PROSPETTIVA EUROPEA (Daniela Felisini). Le agitazioni politiche e sociali inaugurano un decennio contrassegnato da altri fondamentali fattori di crisi: la fine del sistema monetario internazionale stabilito a Bretton Woods (1971) e lo shock petrolifero del 1973  (e poi del 1979).  L’instabilità monetaria e l’aumento del prezzo del petrolio gettano le economie occidentali in una gravissima fase segnata dalla recessione produttiva e, insieme, dall’ inflazione. Si inverte il segno delle aspettative degli attori economici. I maggiori paesi europei, ma anche gli Stati Uniti e il Giappone,  reagiscono in modo diverso e optano per ricette di politica economica e sociale differenti che avranno conseguenze profonde  negli anni Settanta ed oltre. Il quadro si divarica rispetto alla sostanziale comunanza della fase del boom economico.
In Italia: la classe dirigente  si rivela incapace di governare le tensioni generate dalla crescita dei decenni precedenti e dall’intenso cambiamento di una società troppo frammentata e divisa; in una stagione contrassegnata da una forte ondata ideologica il sistema produttivo italiano perde il vantaggio competitivo in termini retributivi e di produttività. Si entra in una fase in cui da un lato le relazioni industriali dall’altro le  politiche pubbliche non tengono conto delle “compatibilità” nei bilanci delle imprese e dello Stato. La crisi mette a nudo alcune fragilità strutturali del nostro sistema (ad esempio la dipendenza energetica)  ma genera  anche altre criticità.
Le scelte italiane verranno poste a confronto con quelle dei maggiori Paesi europei (Francia, Germania, Gran Bretagna) nell’ambito del contesto  comunitario.

12. PICCOLO E’ BELLO MA NON BASTA (Gianfranco Viesti). La piccola impresa, data per spacciata negli anni del “miracolo” – “quando grande era bello” –  diviene invece, negli anni Settanta, la ciambella di salvataggio del Paese, ciò che gli consente di mantenere una sorta di galleggiamento quando viene meno la possanza della grande impresa, pubblica e privata. Alcuni valorosi economisti, come Giacomo Beccattini e Giorgio Fuà, scoprono che la piccola impresa non è isolata ma, anzi, spesso organizzata in distretti industriali, territori omogenei specializzati nella produzione di un bene per il quale realizzano una sofisticata divisione del lavoro, orizzontale e verticale, grazie alla quale, non solo si produce quel bene, ma anche i prodotti intermedi ed i macchinari necessari a fabbricarlo. I distretti sono il portato di elementi inequivocabilmente storici, sociali, culturali, peculiari di un paese. Quando, nel 1991, viene emessa una legge per proteggerli e preservarli, se ne censiscono 191 che danno lavoro al 42,5% degli addetti all’industria nazionale. Dalla loro dinamicità emerge un “quarto capitalismo”, né grandi imprese private o pubbliche, né piccole aziende. Tuttavia, sia i distretti che il “quarto capitalismo” operano in settori non strategici nella grande partita per l’egemonia mondiale del XXI secolo. Essi, inoltre, sono governati da famiglie con tutti i benefici, ma anche gli svantaggi, che un dato del genere comporta.

13. GLI EFFIMERI ANNI OTTANTA (Giandomenico Piluso, Filippo Cavazzuti). Sembra tornato il grande capitalismo industriale. De Benedetti, Romiti, Berlusconi, Gardini, Benetton, etc. La borsa di Milano vola da una capitalizzazione di 25.000 miliardi nel 1980 ad una di 192.000 miliardi nel 1987. Il momento di massima fiducia è il convegno della Confindustria a Torino nell’ottobre del 1985. Ma il tutto si rivela effimero. E’ un capitalismo senza capitali e senza regole, caratterizzato da “evasori e tartassati”, dove esplode il debito pubblico. Emerge, indubbiamente, un nuovo blocco sociale alla guida del Paese che pare rinverdire i fasti degli animal spirits degli anni Cinquanta e Sessanta. Questi sollecitano il decisionismo Craxiano. Ma è un edificio costruito sulla sabbia, sulle piramidi societarie, sul predominio della finanza, sulla spesa dissennata, sulla corruzione collusiva fra politica e affari.

14. SAN VITTORE E LO YACHT BRITANNIA (Roberto Petrini). Si è parlato di un piano internazionale per ricondurre l’Italia sulla retta via. Un piano proveniente dagli Stati Uniti, centro del capitalismo mondiale che, anche dopo la “caduta del muro”, non poteva fare a meno che un paese come l’Italia avesse i conti politici ed economici a posto. E’ un’ipotesi suggestiva che va tutta verificata attraverso un attento esame indiziario. Certo, all’inizio del ’92, e per un paio di anni, l’operazione “mani pulite” mette a nudo l’estrema fragilità del nostro establishment  politico ad economico. Al tempo stesso, il Paese sembra in vendita. E’ questo il senso della presunta gita di politici e finanzieri  stranieri sullo yacht Britannia. Di fatto, ha inizio uno dei più grandi processi di privatizzazione al mondo, i cui esiti sono tutt’ora controversi.

15. ITALIA ADDIO (Andrea Colli). Il Paese avrebbe dovuto essere il naturale destinatario di iniziative di imprese multinazionali le quali contribuiscono a sostanziali incrementi di reddito nei paesi dell’Europa meridionale. Dall’Italia, invece, se ne vanno per le inefficienze della burocrazia, per la devastante presenza della malavita organizzata, per la scarsa cura delle infrastrutture e, in particolare, delle reti di trasporto. Tutto ciò mentre il Paese mostra di non saper valorizzare le sue straordinarie risorse per il turismo,  le sue bellezze naturali, i suoi beni culturali.

16. ALLE ORIGINI DEL DECLINO (Franco Amatori). E’ il saggio che tira le fila, ovviamente, che vuole argomentare una retro datazione del declino e, al tempo stesso, vuole interrogarsi sui caratteri di questo che minaccia di diventare da relativo ad assoluto, da congiunturale ad epocale, quasi un nuovo XVII secolo. “Ricchi per sempre?”, si chiede Pierluigi Ciocca. Non sembra una domanda stravagante.

UNO SGUARDO CONCLUSIVO: Giuseppe Berta, Alberto Martinelli, Michele Salvati, Salvatore Veca, Franco Amatori

L’approdo mancato (Annale Feltrinelli 2016)

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